giovedì 6 novembre 2014

Antonello Silverini: Guaritore galattico


Un essere sonnacchioso, ma allertato, tentacolare, in un mare paludoso, da  palude definitiva, color marrone, terra bruciata, e una cattedrale avvolta tra le sue spire, una chiesa gotica con un rosone in facciata. Il suo viso  affonda la bocca e parte del naso nella fanghiglia ma un bagliore risplende nella guancia sinistra, simile alla luce spettrale della cattedrale. Se fossimo d’accordo con  quanto dice l’illustratore delle copertine dickiane  di Fanucci Antonello Silverini: “Credo che le illustrazioni rimangano, per tutti noi, il primo coinvolgimento con il libro, il primo sguardo nella storia d’amore con quello che leggeremo” sarebbe allora lecito chiederci se questo coinvolgimento, se questo approccio visivo con il testo scritto è stato raggiunto, ha avuto un viatico ben augurale con una storia che speriamo sia storia d’amore, o quanto meno di un feeling intenso che giustifichi il tempo, sacrificato alla vita, della lettura. Ma è proprio così? E’ l’immagine che presenta un’opera letteraria la sua rappresentazione, quella chiave visiva che introduce all’opera, la illustra, illustrazione appunto? Nel caso di Silverini penso di no e questa in particolare me lo conferma. Siamo lontani dal rappresentare il romanzo, quel viso potrebbe essere quello di un hidalgo, con un cappello a larghe falde con in cima uno spillone a forma di cattedrale e un passamontagna ad avvolgere gran parte della faccia. Siamo lontani dalle puntuali illustrazioni di un Thole, a cui bastavano le quattro righe di riassunto per sintetizzare il senso del romanzo. Ma sì Silverini non sa illustrare, non sa rappresentare, ma forse sa autorappresentarsi. Forse sa fare quella cosa che raramente riesce a un illustratore, quello cioè di lasciarsi coinvolgere, di partecipare alla storia, di essere dentro quella storia. E pertanto di rinarrarla a modo suo, da protagonista. Antonello Silverini diventa Joe Fernwright, si sente hidalgo nell’avventura col Glimmung. In quella carta marrone sgualcita, da pacco, si avvolge per affrontare la perigliosa missione della cattedrale da far riemergere. Una riemersione da un indistinto primordiale, anche se ormai un po’ fuorimoda, inconscio collettivo. Senza nulla togliere a tanta buona illustrazione, qui siamo in un’altra cosa; non è l’arte, non c’entra, siamo in qualcosa di diverso. E’ la capacità di un’autonomia visiva che non rinuncia, che non si stacca comunque dall’oggetto che la influenza. In un qualche modo si crea un doppio, un doppio sì dell’opera letteraria che l’ha generato, ma un doppio che può essere letto a sua volta in modo autonomo e creativo. Si è generata un’altra opera.

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